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L'Odore del Mare
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Testo di  Davide Castellano
Fotografie di  Davide Castellano
Data Pubblicazione  29/05/2005

Ho trascorso gli anni della mia fanciullezza su una banchina in un piccolo porticciolo, insieme ai pescatori e alle loro cose. Ogni cosa aveva un colore, ogni cosa aveva un odore particolare dalle mille sfumature.

Osservavo incantato i lenti movimenti dei pescatori che come personaggi di un presepe erano sempre li allo stesso posto, chi riammagliava le reti, chi eseguiva lavori sulla barca, chi metteva in ordine le coffe.
Era un brulicare di operosità e di attività tutte dedicate al mare e alla pesca, anche le donne dei pescatori partecipavano a riassettare le reti, tutto il borgo era attivo.

Per un bambino tutto poteva essere un gioco, non esistevano playstation e televisioni, non esisteva la noia, si andava a scuola con i pantaloncini corti e i sandaletti. Ci si scambiava ami e galleggianti, piccole canne da pesca costruite con la parte anteriore dei finocchietti, lenzette e piccoli piombi, tutto materiale autocostruito, recuperato o addirittura inventato.

Ogni piccolo bambino aveva il suo sogno che si chiamava mare. Dopo i compiti si scendeva in banchina a giocare, il gioco era aiutare i pescatori in tanti piccoli lavoretti, solo è sempre con la speranza che qualcuno di loro ti dicesse: uagliò iamm a ghizà a coffa (ragazzo andiamo a recuperare la coffa), oppure iamm aizà a rezza (andiamo ad alzare la rete).
Una cosa del genere per noi bambini era una specie di investitura cardinalizia, solenne e grave. Si fidavano di te, ti avrebbero portato a bordo, eri ormai uno di loro.
Nessun padre si preoccupava per una cosa del genere, la migliore di tutte, seconda solo alla scuola, il mare, una vera e propria scuola di vita.

Non c’era una lira ma tutto era solenne e dignitoso, pulito e onesto, tutti conoscevano tutti, tutti aiutavano tutti e proprio in una di queste occasioni conobbi Gennaro, un bambino magro come un chiodo e con gli occhiali, il nipote del prete.
In realtà lo conoscevo da sempre ma non ci eravamo mai parlati, non era mai capitato che avessimo giocato insieme. Un pescatore ci disse: uagliù, stennite e allistate a coffa ncopp’arena ca po venghje arravuglià int’a cascetta (ragazzi, stendete bene la coffa sulla spiaggia che poi vengo io a sistemarla nuovamente nel cassettino), io e Gennaro ci guardammo negli occhi, fieri ma consapevoli di esserci imbarcati in una faccenda immane.

Guardammo l’enorme cassetta contenete una ormai matassa di cordino e iniziammo a stendere e snodare. Passammo due giorni a sciogliere l’intricata matassa senza che nessuno ci dicesse niente e alla fine del lavoro, visto che nessuno era più venuto andammo noi dal pescatore a dirgli che il lavoro era finito.
Ci guardò e ci disse: se tenivo nata coffa ve levavo a sott’e pier pe nati due juorne (se tenevo un’altra coffa vi tenevo impegnati altri due giorni). Delusi e amareggiati ci rendemmo conto che poi alla fine davamo pure fastidio con le nostre continue domande, ci rassegnammo ad essere stati presi per i fondelli e amarezza ancora più grande e che il tutto era avvenuto con l’autorizzazione di nonno Turiello.

Fummo però ripagati alla grande quando il nonno ci portò a pesca di ricciole usando come esca l’aguglia viva. Forse fu proprio quello il giorno in cui mi accorsi che nelle mie vene cominciava a scorrere un po’ di acqua di mare.

Ricordo ancora come fosse adesso, il filaccione appeso alla poppa del gozzo con le aguglie, altro che vasca del vivo. I piombi guardiani non erano altro che piccole pietre tenute con un pezzetto di filo di ferro.
Dopo due o tre uscite fummo incaricati di procurare le aguglie e continuammo per anni a fare le stesse cose, al nostro segnale nonno Turiello si faceva accompagnare fuori il porticciolo, saliva a bordo e iniziava a pescare, io e Gennaro stavamo immobili a prua con gli occhi sgranati ad aspettare l’abboccata.
Ma tutta l’attenzione era mirata a carpire tutti i segreti, dall’innesco ai movimenti, anche quelli scaramantici, tutto costituiva sapere. Immancabilmente la ricciola arrivava a bordo senza che nonno Turiello si scomponesse più di tanto e noi capissimo qualcosa, con una maestria incredibile portava la ricciola sotto la barca in tre minuti, un colpo di raffio e il tonfo del pesce sul paiolo della barca.

Verso i vent’anni ormai eravamo alle prese con i problemi dei più grandi, difatti stessa banchina, stesso molo e stesso Gennaro, impegnati in lavoretti più difficili, pitturare le barche e preparare le battute di pesca in maniera scientifica quasi fosse un lavoro, non aspettavamo più che qualcuno ci portasse a pescare, eravamo noi che decidevamo di andare a pescare, una occhiata a nonno Turiello che senza battere ciglio e solo con lo sguardo ti faceva capire che era il momento propizio.

Che goduria al ritorno leggere negli occhi dei pescatori l’orgoglio dei maestri nei confronti degli allievi. Chiaramente il gioco era quello di nascondere l’adrenalina di ogni cattura, volevamo essere come loro ma non ci riuscivamo, era troppa la gioia per le catture.

A distanza di quarant’anni, stesso molo, stesso porticciolo, stesso Gennaro, ormai mio fidato pilota in migliaia di battute di pesca, qualcuno non c’è più ma noi lo vediamo e lo sentiamo lo stesso, chino sulla montagnola di reti a lavorare.

Certo tutto si è evoluto, tranne le calde pietre di basalto del pavimento del molo, riconosco ancora le fenditure e le forme come ieri anche oggi. Tutto si è evoluto, anche gli anelli e le bitte del molo sono più logore, solo l’odore è rimasto sempre lo stesso, una miscela olfattiva composta dal salmastro, dalla pietra bagnata, dalle antivegetative al sole e dalle reti messe ad asciugare, il legno bagnato dei gozzi, e le cime bisunte da anni di duro lavoro.
Tutto confluisce in un unico aroma, un odore per me irresistibile che riesco a percepire anche da lontano, un odore che una volta che ti è entrato nel cervello non lo dimentichi più.

L’odore del mare ti coinvolge e ti attira e oggi, attraverso i racconti cerco di trasmettere alle persone l’amore profondo per il mare e il rispetto che gli è dovuto, quasi a restituirgli in un compito arduo e impossibile, quanto ricevuto.
 



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