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Ponente Maestro
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Testo di  Ignazio Abbruzzo
Fotografie di  Ignazio Abbruzzo
Data Pubblicazione  05/05/2009

Salvo si alzò presto quel mattino e, da come armeggiava quel piccolo triangolo che aveva in mano, si capiva che doveva uscire a pesca. Cosa volesse farne di quel ferretto lo sapeva solo lui. Da come lo guardava però, doveva trattarsi di qualcosa per la sua traina. Una innovazione. Una di quelle trovate elementari che poi si rivelano validissime; oppure, chissà?

La moglie del pescatore, Marta, s'era già levata da un pezzo e, a dire il vero, le interessava ben poco lo stupido triangolino che il marito teneva in mano. La donna se ne stava vicino alla finestra a fare la maglia con una lana senza più colore. Davanti a lei, la foto della figlia ritratta in abito da sposa. A giudicare dal comportamento dei due, ognuno avrebbe detto che si sopportavano appena; specialmente da quando la figlia era andata a vivere in una città lontana col suo sposo. Salvo manovrava quel suo pezzetto di ferro a triangolo ottenuto con un tondino di cinque millimetri e si soffermava a pensare. Poi lo portava vicino all'occhio e vi guardava attraverso. In quei momenti egli era lontano e chissà in quali mari, in quali paradisi trasferiva i suoi occhi.

Il pescatore infilò un paio di calzini bucati che ormai metteva da tanti giorni; mandò giù un altro boccone amaro nel pozzo dove metteva tutti gli altri e si portò davanti alla finestra per respirare. Il mare era calmo di una calma strana; il cielo era limpido, anche se all'orizzonte, si vedeva un piccolo neo, un puntino nero che stava giusto dentro il triangolino di Salvo.

Nel terrazzino della casa, i gerani, il basilico, la menta e le altre piante, da tempo senza cure, erano mezze secche: le buganvillee e l'ipomea, anche se capaci di procurarsi l'acqua da sole, fiorivano male, soffrivano di malinconia. I fili tesi tra un muretto e l'altro per asciugare i panni, erano spogli da tanto tempo. Marta non aveva più voglia di fare nulla; non lavava, non stirava, lasciava ogni cosa in abbandono. Non le si poteva nemmeno rivolgere la parola.

Salvo prese la borsa con le traine; prese l'esca dal frigorifero; mise in spalla i remi, il mezzo marinaio, il raffio ed uscì di casa con quel ferretto infilato tra due dita; lo maneggiò un poco e poi lo infilò in tasca. Quel puntino nero all'orizzonte che aveva visto prima s'era fatto un po' più grandino; il mare rimaneva una tavola. Lei non alzò un secondo lo sguardo dal suo lavoro; non aveva mai accettato per buono il comportamento del marito, specialmente quando la lasciava per andare a pesca.

Non gli perdonava d'aver saputo conservare il sorriso e che quella stupida dilettanza potesse dargli sensazioni complete che lei non vedeva, che lei non capiva. Lei non era gelosa della pesca in se stessa, ma di ciò che lui provava, della pienezza che gli si leggeva in viso ad ogni ritorno. Per una ragione o per l'altra, era diventata insofferente, a volte cattiva e si comportava come se lui non esistesse.

Salvo interrogava spesso il suo cuore su come stavano le cose laggiù, ma non riceveva alcuna risposta. Lei era sempre in agguato per potergli rimproverare qualcosa di preciso; e non appena trovava un appiglio non si fermava più. Gli riversava tutto un passato di stenti, di errori, di insuccessi, di una vita sprecata per nulla. Lui la lasciava dire, tanto, prima o poi si sarebbe deciso ad andarsene, laggiù, vicino al mare, nella capanna del suo amico Camillo. Li non avrebbe più avuto spese nemmeno di cuore. Aveva sì qualcosa da rimproverarsi, chi non ne ha? Ma messa ogni cosa in ordine, riusciva ancora a stimarsi. Aveva sempre creduto in ciò che faceva.

Il mondo non era riuscito ad assorbirlo completamente tra le sue maglie; la ricchezza, la proprietà e tutte le altre cose che la gente rincorre non lo sfioravano per niente. Lui era ricco di cose che non si comprano. Viveva della sua pesca e' vero; viveva di quella poesia che a volte distrae; si assentava con la mente per vivere il suo gioco preferito in un ambiente gentile, un po' cercato un po' trovato. ma di queste sue fughe, nessuno sapeva nulla. Era povero, ma non era mai stato in miseria.

Dopo aver fatto qualche passo il pescatore si voltò per dare un'occhiata alla sua casa che andava in rovina; mandò giù un altro boccone dove sapeva lui e riprese il cammino verso il porticciolo naturale che ospitava la sua barca. Come tutti i pescatori che devono raggiungere il posto di pesca, camminava male, procedeva in precario equilibrio, inciampava. Con la mano in tasca, intanto, ripassava tra le dita quel triangolino famoso; a cosa gli servisse, tuttavia, rimaneva un mistero.

Salvo si portò sopra un'altura; si chinò a raccogliere un pezzo di resina da un ramo di lentisco e lo portò in bocca a mo' di gomma da masticare. Spostò i mirti e tornò ad osservare il punto nero all'orizzonte. Stavolta non aveva dubbi. Da lì a poco si sarebbe scatenata una burrasca. "Ponente maestro". Come quella volta che l'aveva sorpreso in mare, oltre lo "scavalco" al di là della protezione del golfo, "a mare perso", e da li in un vortice spaventoso. Niente faceva prevedere quel mare; nel primo mattino era così sereno che si potevano contare le stelle. "Ponente maestro" pensò.

"Non posso andare a pesca, ma non voglio neanche tornare a casa - si disse - me ne starò su quelle dune di sabbia dove il mare mi restituì alla terra. Dormirò e penserò. Penserò a quelle meravigliose giornate di pesca; penserò a quel pesce che mi trascinò per miglia e miglia oltre lo scavalco, a mare perso, a quel pesce enorme e bello che sapeva tutto; che sapeva esattamente cosa era in arrivo. Potrò pensare a quando Marta era più trattabile e a quando mi voleva ancora bene; quando dividevamo ogni respiro. Potrò pensare alla mia bambina, a tutte queste cose potrò pensare".

Il pescatore camminò per una decina di minuti, depose a terra i remi, si distese e appoggiò la testa sulla borsa delle lenze. Tirò fuori il suo ferretto e prese a farlo roteare attorno ad un dito. All'orizzonte intanto, il puntino nero di prima era diventato una nube nera e minacciosa. Poi l'uomo portò all'occhio il triangolino e attraverso quel cannocchiale tra le scille urginee e i gigli pancrazi vide una ragazza dai capelli biondi.

Giovane e rosa in viso, vestiva di seta. Si muoveva leggera tra la vegetazione come se non posasse per terra; raccoglieva i gigli e le scille e li osservava come se non ne avesse mai visti. Saltellava ora su un piede ora sull'altro, passava le dita a pettine tra i capelli e sorrideva di gioia. Poi uno di quei sorrisi lo dedicò al pescatore che, colto di sorpresa, rimise in tasca il triangolino.

Il mare cominciava ad agitarsi; al largo la nube nera avanzava minacciosa, lampi sinistri la squarciavano. Lampo a ponente - dicevano i vecchi - non lampa per niente. Sotto di essa infatti, il mare già bolliva di rabbia. Le barche si affrettavano a rientrare e ce l'avrebbero fatta bene o male, perché questa volta l'occhio da ponente maestro aveva avvertito in tempo.

Ma quella volta no. Nemmeno il tempo di farsi la croce. In due minuti s'era scatenato l'inferno. Lui era uscito a traina come le altre volte, nello stesso modo in cui gli aveva insegnato suo padre e via, da generazioni. Pescava col vivo, dalla sua piccola imbarcazione che tuttavia era spinta da un discreto motore. Aveva pescato una decina di sugherelli che avrebbe usato come esca per i pesci più grossi. Sul fondo del paiolo i sugherelli vibravano ancora; nei loro occhi grandi simili a piccoli oblò, si vedeva ancora il mare.

Quel giorno il pescatore sentiva che avrebbe pescato qualcosa di grosso; anche se una strana inquietudine tirava giù il suo filo. Trainava il suo sugherello ai margini del branco con un finale d'acciaio ricavato da un freno di bicicletta. Gli ami glieli saldava il suo amico Gesualdo che era un maestro in saldature. Era un'attrezzatura artigianale la sua, alla buona, ma adatta allo scopo. Egli non possedeva canne ne' mulinelli, ma una lenza del duecento avvolta in un sugherone e tanta esperienza. Una pelle di daino sempre bagnata gli serviva per non farsi bruciare le mani dalla lenza che filava col pesce grosso. Lui amava i suoi pesci; per Salvo avevano tutti la stessa importanza.

Qualche pesce piccolo lo portava a casa per la cena; i grossi, invéce, al padrone di un ristorante che glieli pagava decentemente. Non aveva mai preso all'amo un pesce come quello. Appena agganciato partì come un razzo verso il largo, trascinando la barca per un po'; Salvo allora gli spedì un paio di quelle "lettere" che stancano anche il pesce più grosso. Le lettere sono tavolette di legno di 50-60 centimetri legate in mezzo con una cordicella che all'altro capo monta un moschettone. Lettere in mare quindi e moschettone passato nella lenza madre che va a pescarlo per mezzo di un anello fissato lungo il suo corso. L'azione in acqua di tali tavolette e' facile da immaginare.

Quello però non era un pesce normale, dopo un paio di giri, si fermò a due metri sotto la superficie, a fianco della imbarcazione. Salvo prese il raffio, lo immerse, ma anche se era vicinissimo, in nessun modo riusciva a raggiungere il pesce. Si chiese allora cosa stesse succedendo, guardò l'orizzonte e capi subito. Tagliare la lenza e prendere la via della costa, fu questione di un momento. Troppo tardi!

Sulla superficie del mare cominciarono dapprima ad apparire delle cupole di due, tre metri di diametro che poi si trasformavano in piccoli vortici. Strisce luminose come folgori sembrava si scagliassero contro la barca, la attraversassero per poi sorgere dalla parte opposta. Tutto era diventato bianco. L'acqua era nel vento, il vento era nell'acqua. Le onde erano altissime. Le strisce luminose ora di grandissima intensità si trasformavano in ruote che giravano in tutti i sensi, ora a poppa, ora a prua. Spaventoso!

L'uomo era lì in mezzo, solo con la sua banchetta; ma più' che per se stesso era preoccupato per i suoi cari, di quanto avrebbero sofferto se non ce l'avesse fatta. Le onde si rivoltavano in paurose cascate che, se si fossero riversate sulla barca, l'avrebbero spaccata in mille pezzi. Il pescatore legò l'ancora a rovescio e mollò tutta la corda come gli aveva insegnato suo padre; così, quando l'onda spaccava, l'ancora tratteneva un po' la barca. Dopo mille strappi la corda si ruppe, ma Salvo non si perse d'animo; viaggiava sull'onda alta e, prima che si rompesse, tornava un po' indietro; andava avanti per dieci metri e tornava indietro per sette. Improvvisamente fu preso da un vortice e a nulla più servivano le sue esperienze di marinaio; un vortice spaventoso che inghiottiva ogni cosa. Lui non aveva dimestichezza con i santi, ma quella volta invocò la protezione della Madonna della fine del mondo.

La nonna glielo aveva consigliato prima di morire. Se ti troverai in pericolo in mezzo al mare - gli aveva detto - chiama questa Madonna; ti sentirà. Per gli anziani, la fine del mondo era l'estremo lembo del nostro paese. Invocò la Madonna della fine del mondo, Salvo; un momento prima d'essere inghiottito dal vortice vide il "Mater cara", l'uccello delle tempeste. Da quel momento non ricordò più nulla. Si ritrovò dopo chissà quanto tempo sulla sabbia, con tutta la barca, miracolosamente salvo. Nello stesso punto dove ora appoggiava, la testa sulla borsa delle lenze.

L'odore acre del lattice del fico, si mescolava con quello degli origani e degli ambrenti. Le onde tormentavano ancora la costa, ma la ragazza, quella vestita di seta, si muoveva come se nulla stesse accadendo. "Chi sei?" le chiese Salvo. "Non mi riconosci?" "Mi sembra di riconoscerti, ma non ricordo." " Sono venuta per te Salvo!" "Per me?" "Si!" "Me lo regali quel triangolino di ferro che hai in tasca?" "Si, te lo regalo, ma non so a cosa ti possa servire; e' solo un pezzo di ferro! Che te ne fai?" "Non è il pezzo di ferro che mi interessa, ma tutto quello che tu ci vedi dentro. Grazie Salvo, sei grande!" "Io sono un semplice pescatore, non importo niente a nessuno!" "Per me sei importantissimo, sei un gioiello per me. Marta come stà?" "Sta bene, ma non andiamo molto d'accordo." "Lo so - rispose - so tutto di te. Quello che sogni e quello che no. Mi sembra pero’ che ultimamente l'hai un po' trascurata. Ha sofferto tanto da quando la vostra bambina e' andata via. Lei ha bisogno di te."

La giovane mise insieme un mazzetto di gigli del mare e gliene fece sentire l'odore. "Senti il profumo di questi fiori non e' meraviqlioso?" "Si, ma stai attenta dove metti i piedi, potresti farti male." "Grazie - gli disse - d'aver pensato a me, sei più buono di quanto ricordassi."

Cosi dicendo la bellissima giovane gli diede un dolcissimo bacio che sapeva di miele e di rose; miele e rose di paradiso. Dolci le labbra, profumato il respiro, rilucenti di gemme aveva gli occhi. "Ora so chi sei - scoprì il pescatore - Tu sei, la Ma..." Non lo fece finire. "Quella della fine del mondo. Tu mi hai chiamato."

Proprio in quel momento una spruzzata di mare lo svegliò. Salvo era confuso, smarrito, ma sapeva quello che doveva fare. Raccolse i suoi remi, le sue cose si diresse verso casa. Il mare cominciava a placarsi. Dal suo terrazzino spiccavano un'infinita' di panni stesi, di calzini, di fazzoletti. I gerani, le buganvillee e le altre piante, sembravano rinate.

Marta attendeva il marito davanti alla porta. Si corsero incontro e si abbracciarono di grande sentimento. "Sono stata molto in pensiero per te - gli confessò - ho visto quel tempo, mi sembrava di impazzire." "Ti ho trascurata un po', ma vedrai che d'ora in poi starò più attento a te."

Salvo la baciò sulla bocca come non aveva fatto da tanto tempo. Non avevano bisogno di dirsi tante parole. "Ma cos'hai sulla bocca Salvo mio? Sa di miele! Il tuo respiro profuma di rose! Madonna mia, mi sento tremare tutta! Cos'è questa cosa, questa sensazione! Mi viene da piangere!"

Gabbiani in formazione tornavano dall'entroterra, segno che la tempesta era già finita. Intanto alla casa erano giunti Camillo e Gesualdo ...

Ignazio Abbruzzo
 



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